Nel vento della libertà

Pensieri su due ruote e un motore

Il delirio della obsolescenza programmata

Vi è mai capitato di avere un elettrodomestico guasto e scoprire che ripararlo costa quanto riacquistarlo?

In seguito a questa situazione mi è capitato di sentire parlare di “obsolescenza programmata”, e mi si è accapponata la pelle.

Sono infatti della idea che l’obsolescenza progammata sia da mettere sullo stesso piano delle scie chimiche e di altre patologie da complottismo. Credo che l’avere lavorato per oltre 30 anni nei servizi di assistenza tecnica mi fa vedere le cose in modo diverso da altri, compreso dagli autori di Wikipedia.

Su Wikipedia, alla voce “obsolescenza programmata” viene riportato un esempio corretto (menzionando una lobby di produttori di lampadine del 1924) ma poi si finisce totalmente fuori tema, confondendo l’evoluzione dei metodi di produzione con l’obsolescenza programmata.

Ma per capire di cosa sto parlando, andiamo con ordine. Faccio un esempio analizzando l’evoluzione negli anni di un oggetto che quasi tutti hanno in casa e a tantissimi si è guastato almeno una volta: il televisore.

Voglio cominciare con la parte che è stata visibile a tutti.

Evoluzione del prodotto e del mercato

Televisore a valvole anni 60

Negli anni 60 vennero messi in commercio i primi televisori. Erano grossi, molto costosi (quasi tre mensilità di un operaio dell’epoca) e permettevano di vedere un solo canale (ce n’era solo uno) in bianco e nero.  Con il passare del tempo i televisori costarono meno, questo permetteva a più persone di acquistarlo, creando un circolo virtuoso: la domanda sale, per produrre più televisori si cambiano i sistemi di produzione, in modo che siano più efficienti e il costo di produzione cala. Siccome costa meno anche acquistarlo, la domanda continua a salire, e così via.
L’aumento del numero di televisori prodotti permetteva anche di migliorare l’affidabilità

Caratteristiche e tecnologia cambiavano in fretta. Alla fine degli anni 70 arriva il colore, poi il suono stereo, e diversi formati dello schermo. Negli anni 90 nei cataloghi si trovavano televisori per ogni possibilità di spesa. Televisori in bianco e nero, dai 14 ai 22 pollici. Televisori a colori, dai 14 ai 40 pollici. Per dimensioni maggiori c’erano i sistemi a retroproiezione. Televisori mono, stereo e con il surround. Apparirono i primi televisori a 100Hz e con elaborazione digitale della immagine.

Era facile che in casa ci fosse più di un apparecchio, e gli esperimenti per l’alta definizione vennero conclusi dall’arrivo dei primi schermi LCD e dal digitale terrestre, che mise in pensione i televisori più vecchi. Con il satellite si diffusero i televisori full HD, e poi con le connessioni internet veloci arrivarono gli smart tv, e i televisori UHD.

Malgrado l’aumento delle prestazioni, il costo è costantemente diminuito. Costano care solo le novità, per poi scendere velocemente di prezzo. Oggi con una mensilità di un operaio si possono acquistare tre smart tv UHD da 50 pollici.

Ma tutto ciò è quello che vedono tutti. Per arrivare a questo ci sono tante altre situazioni che solo chi ha lavorato nei laboratori di assistenza tecnica ha potuto vedere.

Realizzazione e componenti usati

Televisore Philips anni 70

I primi televisori erano a valvole, componenti che si usurano con il tempo e prima o poi si doveva intervenire per ripararli. La riparazione era in molti casi fatta toccando le valvole: quella fredda era da cambiare. Poi arrivarono i transistor e i circuiti integrati. Negli anni 70 gli schemi erano diventati più complessi, e per ripararli era necessario avere la documentazione tecnica specifica, che erano dei fascicoli realizzati dai produttori, di molte pagine.
Dagli anni 90 vennero poi sviluppati circuiti integrati sempre più sofisticati, che permettevano di ridurre la dimensione della parte elettronica del televisore. I televisori odierni hanno tutta la parte elettronica in una scheda da 20x20cm

Disponibilità dei ricambi.

Le valvole usate negli anni 60 erano componenti comuni, facilmente reperibili, e fu così anche per i transistor e i primi circuiti integrati. La disponibilità non dipendeva dai produttori dei televisori, e si potevano trovare anche dopo molti anni che un televisore era stato costruito.

Le cose cambiarono con gli integrati prodotti dagli anni 90. All’inizio erano soprattutto microprocessori di gestione del televisore, poi arrivono i circuiti integrati per l’elaborazione dei segnali video, e per i segnali audio. Tutti questi circuiti integrati erano progettati da chi costruiva i televisori, e anche la disponibilità dipendeva dai produttori. Dopo qualche anno dalla fine della produzione del televisore, era difficilissimo trovare questi componenti. I circuiti continuavano ad evolversi, i televisori ad essere sempre più affidabili e si guastavano sempre meno. I circuiti integrati erano sempre più piccoli, e per sostituirli servivano attrezzature specifiche, quindi si cominciò a dare come ricambio intere schede assemblate, molto costose, ed è questa la situazione attuale.

Riparabilità

Telaio TVC Philps – Anni 80

Se i primi televisori erano facilmente riparabili anche da tecnici poco esperti, le cose cambiarono velocemente. Con l’aumentare delle prestazioni, aumentava la complessità, e aumentavano le competenze richieste per la riparazione. Aumentava anche la complessità delle apparecchiature usate per la riparazione, ma nel frattempo i televisori erano sempre pià affidabili, e gli apparecchi da riparare diminuivano.

I televisori che si guastavano erano pochi per ripagare il costo delle apparecchiature e dei tecnici specializzati, e anche per i produttori stava diventando troppo costoso gestire il servizio assistenza, per il quale dovevano produrre la documentazione tecnica e mantenere le scorte dei componenti elettronici per la riparazione.  A partire dagli anni 2000, grazie alla aumentata affidabilità, un poco per volta queste attività (e i costi relativi) vennero ridotte.

I costi della assistenza tecnica impattavano sul prezzo del televisore, e riducendo quei costi, fu possibile ridurre ulteriormente il costo degli apparecchi.

Produzione

Televisore LCD moderno

I primi televisori erano prodotti in modo quasi artigianale. I telai a valvole dovevano essere assemblati a mano da personale specializzato. Con i transistor e gli integrati fu possibile usare sistemi di produzione semi automatici, che permettevano di abbassare i costi di produzione.

L’automazione nella produzione è continuamente aumentata, e le macchine possono essere utilizzate anche da personale non specializzato, cosa che col tempo ha fatto chiudere tutti gli stabilimenti di produzione in europa, spostandoli in estremo oriente, dove il costo del lavoro è più basso.

Se mettete insieme tutte queste situazioni è facile capire il risultato.

Con il progredire della tecnologia sono aumentate le prestazioni, è aumentata la complessità degli schemi ma sono diminuiti i componenti e la dimensione della parte elettronica. Produrre ed acquistare un televisore moderno ad alte prestazioni costa pochissimo, il prodotto realizzato è molto complesso e compatto, e per ripararlo servono ricambi costosi e personale che ha un costo molto più alto del personale utilizzato per produrre il televisore. Il costo orario di manodopera di un tecnico è almeno di 40 €, il tempo di riparazione di un televisore può essere di 2 o 3 ore, poi si aggiunge il ricambio, che è facile che superi i 100 euro di costo.

Arrivare a 150-200 euro per riparare un televisore, è un attimo.

Poi si considera che il televisore ha oramai 3 o 4 anni, che anche se era costato 900 euro, oggi con meno 400 euro se ne può acquistare un nuovo, con prestazioni migliori. Il risultato è che il costo di riparazione è sproprzionato al valore del televisore, e si preferisce acquistarne uno nuovo.

Per pagare meno la riparazione si dovrebbe avere un tecnico pagato 5 € l’ora e ricambi che costano al massimo 10 €. Solo così si tornerebbe ad avere la riparazione che costa meno di un decimo del valore del televisore, ma è una soluzione che non è possibile.

La conclusione è che non esiste “obsolescenza progammata”, ma il cambio delle modalità di produzione e degli ambiti di utilizzo ha portato ad una riduzione dei tempi di obsolescenza di ogni prodotto.

Non si fanno le nozze con i fichi secchi: se volete qualcosa che duri nel tempo, come le cose di una volta, devono essere prodotte come una volta, con le prestazioni di una volta, e con i prezzi di una volta, quindi con un forte aumento dei prezzi di acquisto.

Si potranno così acquistare oggetti fatti meglio, forse con prestazioni inferiori ma più costosi di quelli odierni, quindi se ne acquisteranno molti di meno, ma potranno essere sempre riparati, per molti anni. Come negli anni 60.

Oppure si va avanti così, si possono avere elettrodomestici che fanno cose incredibili a costi contenuti, ma durano di meno

E prima di riparlare di obsolescenza programmata, accettate il fatto che se non ci fossero stati i consumatori a premiare chi vende prodotti sempre meno costosi, oggi non saremmo dove siamo.

Chi è causa del suo male, pianga se stesso, e non dia la colpa a complotti che non esistono.

E soprattutto,prima di acquistare qualcosa “Made in PRC”, pensate sempre alle conseguenze che comporta, datro che quella etichetta equivale a leggere “prodotto usa e getta”.

Lasciate perdere l’obsolescenza programmata, e date il benvenuto al Consumismo 2.0,

E purtroppo “la resistenza è inutile” (Cit. Star Trek – TNG)

Cosa sono i voti di fiducia?

E’ stata da poco approvata la nuova legge elettorale, utilizzando il cosiddetto “voto di fiducia”.

Se ne sente parlare sempre più spesso, al punto di non farci più caso, ma quanti sanno esattamente cosa è il “voto di fiducia”?

Ma soprattutto in quanto sanno che negli ultimi anni una legge su quattro è stata approvata con un voto di fiducia, e che il governo Gentiloni (entrato in carica il 12 Dicembre 2016) ha usato per ben 22 volte questo sistema per fare approvare una legge?

Riporto integralmente un articolo del sito Openpolis, che spiega alcune cose riguardo il voto di fiducia e su come è stato usato ultimamente, spero possa farvi riflettere e capire in mano a chi siamo finiti.

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Populismo e democrazia

Dopo le elezioni in Germania si torna a parlare di “populismo“, come se fosse qualcosa di negativo, collegandolo sempre alla destra e alla xenofobia.

Trovo questo collegamento superficiale, e sono anche della idea che in tanti non sappiano bene cosa sia il populismo.

Una spiegazione la troviamo nel dizionario Treccani dove viene descritto come “atteggiamento ideologico che, sulla base di principî e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi.”

Cercando poi su Wikipedia si può riscontrare che anche secondo chi ha scritto la descrizione di populismo riporta “In questi ultimi anni l’uso che i politici e i mass media fanno del termine “populismo” si è significativamente diffuso e viene usato in un’accezione denigratoria… [omissis]”

I movimenti populisti propongono di rottamare il vecchio sistema di potere, eliminare le vecchie classi dirigenti poiché corrotte e incompetenti, portando il governo più vicino al popolo.  Qualcuno ha visto una descrizione di un certo movimento italiano? Posso solo dire che è stato totalmente casuale, ma la descrizione si adatta benissimo. Si tratta però solo dell’esempio più recente in Italia, dato che in passato ci sono stati altri movimenti o partiti con gli stessi obiettivi, e non è nemmeno facile definire se il populismo sia di destra o di sinistra. Di sicuro è una manifestazione di insoddisfazione della situazione di governo attuale.

Secondo Durkheim Il diffondersi del populismo è una manifestazione del fatto che la “democrazia” non fa sentire rappresentati i cittadini. Durkheim disse una volta che “…il populismo è il grido di dolore delle moderne democrazie rappresentative. Il populismo è inevitabile nei regimi politici che aderiscono formalmente ai principi democratici ma di fatto escludono il popolo dal governo.”

In altre parole, se stanno emergendo movimenti populisti, si deve cercarne la causa nei comportamenti degli attuali partiti.

Malgrado il fatto che i movimenti che stanno emergendo in questi anni in Europa oltre ad essere di destra, uniscano al populismo degli intenti xenofobi ed antieuropeisti, il populismo non ha intenti razzisti o xenofobi intrinseci. Quindi equiparare il populismo alla estrema destra e alla xenofobia, come oramai stanno facendo i media, lo trovo pretestuoso.

Anche assegnare gli intenti razzisti solo ai movimenti di destra lo trovo limitante. Avrebbe molto più senso collegarlo ai governi autoritari e dittatoriali, che siano di destra o di sinistra o di origine religiosa.

Questo non cambia il fatto che l’AfD tedesco è un partito di destra, noto per essere xenofobo e populista.
Tre cose distinte. E per il mix di queste tre caratteristiche ha avuto molto successo alle ultime elezioni.

La reazione degli altri partiti (direi soprattutto quelli italiani) è stata quella di criticare il partito, poiché populista e razzista, criticando di fatto anche chi lo ha votato.

Pare che i partiti “democratici” quando qualcuno non vota come vogliono loro, non sappiano fare altro che insultare chi è stato votato e, di fatto, anche chi lo ha votato.

Direi che continuano a perdere l’occasione di capire la situazione in cui ci si trova e ignorano il messaggio che viene dato dagli elettori. Più che un messaggio, è un urlo di sofferenza.

E’ come se la democrazia possa avere senso solo se si vota come piace loro. Ma se proprio grazie alla democrazia e alla libertà di voto, qualcuno mostra di non essere d’accordo con chi ha in quel momento il potere, allora sta sbagliando.

Mai una volta, una sola volta, che si chiedano “Ma come mai questi partiti xenofobi e populisti stanno riscuotendo tanto successo? Non è che stiamo facendo noi qualcosa che non piace al popolo che dovremmo rappresentare?”

Ma si tratta di autocritica, cosa in cui non brilla nessuno dei cosiddetti “partiti democratici”.
Oramai erano abituati al fatto che chi li criticava al massimo non andava a votare, ora sono spiazzati dal fatto che qualcuno possa non votarli preferendo altri partiti. Però non sanno fare altro che criticare e condannare gli altri.

Ma guardarsi allo specchio, mai.

Invece di criticare la (preoccupante) deriva xenofoba che sta mostrandosi in ogni situazione in cui ci sono elezioni, forse sarebbe il caso di chiedersi il motivo per cui tanti cittadini (usando il loro democratico diritto di voto) stanno esprimento il loro dissenso alla situazione attuale. Situazione dove (tra tante cose) la fallimentare gestione della emergenza migrazione sta portando malessere nella popolazione, creando derive xenofobe.

Se proprio si vuole contrastare la poco piacevole situazione che si sta creando, i partiti “democratici” devono cominciare a rendersi conto che si tratta di una “reazione” alle loro “azioni”. Se vogliono che la “reazione” si arresti, devono cambiare le “azioni” che l’hanno creata.

Oppure possono continuare a criticare gli elettori, senza provare ad ascoltarli, ma poi non piangano se ne verranno travolti.

E si rendano conto che saranno loro i principali responsabili delle conseguenze.

Sostanza od apparenza

Quando si valuta un prodotto o un servizio, che può essere fatto in vista di un acquisto o anche per una valutazione fine a se stessa, di solito la prima cosa che si considerazione è il rapporto qualità/prezzo.  A questa valutazione se ne può aggiungere una seconda, quella sul rapporto aspettative/prestazioni reali. Se con la prima si valuta il prodotto (o servizio) la seconda può dare una valutazione sul fornitore.

Per ogni prodotto ci sono specifiche aspettative, date dalla pubblicità, dalle comunicazioni istituzionali del fornitre, dalle informazioni commerciali che oggi si trovano a profusione su Internet, che sono poi raffrontate con i risultati delle prove o con i commenti di chi ha già usato quel prodotto.

Ci possono poi essere altri eventi che possono dare una indicazione sulla qualità del prodotto e del fornitore, e ho la sensazione che ultimamente si sta diventando sempre meno esigenti, trovando “normali” situazioni che personalmente tanto normali non trovo.

Un esempio è dato dallo smartphone P10 della Huawei.

Il P10 è il prodotto di punta della Huawei, con elevate prestazioni. Dopo qualche settimana dalla commercializzazione si sono cominciate ad avere informazioni sul fatto che le prestazioni non erano sempre uguali: alcuni pezzi avevano prestazioni sensibilmente inferiori ad altri.

Si comincia ad ipotizzare che siano state utilizzate delle memorie di tipo (e prestazioni) differenti, e successivamente confermata dal produttore (che inizialmente aveva negato).

Pare che per dei problemi di produzione dei chip di memoria, siano state usati almeno due diversi tipi di memorie, con prestazioni che sono molto diverse tra loro: rapporto di 1 a 3 per quanto riguarda la velocità. Ovviamente chi ha acquistato uno di questi telefoni non è stato molto contento, ed è stato richiesto come potere identificare i telefoni prodotti con le memorie più lente.

Una azienda moderna della dimensione di Huawei dovrebbe produrre seguendo un processo di controllo della qualità (tipo ISO9000), con procedure che prevedono il controllo che le forniture siano conformi alle richieste, e la tracciatura di ogni componente usato per la produzione di un prodotto, per sapere con cosa è assemblato ogni prodotto. E’ indispensabile per gestire gli eventuali richiami per la sicurezza.

Malgrado questo, la risposta del produttore è stata che non era possibile identificare su quali telefoni fossero finite le memorie più lente.
Una risposta che non ha avuto l’attenzione che meritava, dato che voleva dire che o non hanno controlli della qualità oppure stanno prendendeo in giro i loro clienti.

Due validi motivi che, per quanto mi riguarda, non mi faranno MAI acquistare in futuro uno smartphone Huawei, ma non ho trovato analoghe considerazioni tra le critiche fatte alla situazione.

Ma se la Huawei è una azienda nata con prodotti economici, mentre la Apple si pone in un contesto totalmente diverso.

Qualche giorno fa c’è stata la presentazione del nuovo iPhone X, con una innovativa tecnologia di riconoscimento facciale… che durante la dimostrazione non ha funzionato. Questa situazione è diversa dalla precedente. Qui si tratta di fare un confronto tra le affermazioni di superiorità dei propri prodotti fatta dal produttore, con il pessimo risultato ottenuto durante la dimostrazione.

Più è alto il livello a cui ci si pone, minori sono le concessioni che si possono dare agli sbagli.

Non conta che sia il prodotto che non funziona o la dimostrazione gestita male: da chi vende un prodotto a prezzi elevatissimi (malgrado sia prodotto in fabbriche dove gli operai sono pagati con un pugno di riso) non c’è spazio per fare errori. Dice di essere perfetto, allora deve esserlo. Se non lo sei, la figura è pessima, ma in tanti sono stati pronti a giustificare e scusare questo “epic fail”.

In questi giorni Ryan Air sta cancellando una notevole serie di voli, lasciando a terra molti passeggeri. La motivazione è a dire poco discutibile: i piloti avevano delle ferie in arretrato da smaltire. Poi hanno corretto la notizia aggiungendo che ci sono molti piloti che si stanno licenziando per cambiare compagnia.

Come si fa a gestire una compagnia aerea senza considerare la disponibilità del personale necessaria ad erogare il servizio? Per di più con voli che sono stati prenotati anche con settimane di anticipo. Assurda anche la proposta di rimborsare i biglietti, dato che se si acquista un biglietto aereo è perché si deve essere in un certo luogo per una certa data. Non è con il rimborso che si risolve il problema. Direi che i pinguini di Madagascar sarebbero stati in grado di fare una gestione migliore.

Anche qui non ho sentito le reazioni che ci dovrebbero essere in casi come questo. La motivazione di Ryan Air è palesemente una scusa, e resta la sensazione che stiano prendendo in giro i loro clienti, come nei casi precedenti

Quello che non riesco a capire sono le reazioni della clientela, e soprattutto della “clientela potenziale”. Aziende che vendono prodotti o servizi con promesse che non vengono mantenute, ma malgrado questo le reazioni sono, a dir poco, moderate. Soprattutto se si tratta di clienti non direttamente coinvolti, come per dire “fino a che non mi tocca, che problemi ci sono?”

Per contro trovo esagerate le reazioni che vedo quando Whatsapp oppure Facebook hanno dei problemi e non funzionano correttamente per qualche ora. In questi casi sembra che sia stato tolto qualcosa di vitale, è facile leggere che vengono definite “situazioni inaccettabili”.

Differenze che trovo davvero strane: si hanno reazione molto più accese per un problema su un servizio che non si paga rispetto ad un problema su prodotto o un servizio che si paga.

Ulteriore dimostrazione che viene data sempre più attenzione alla qualità della apparenza che non alla qualità della sostanza.

Sarà anche il risultato della evoluzione dei tempi, ma a me non piace per niente.

Per chi ha la moto dentro?

Si sta avvicinando EICMA 2017 (9-12/11/2017) e ho ripensato allo slogan del 2013: “I motociclisti sono cambiati”.

Indubbiamente da quando sono nate le motociclette, gli utilizzatori delle moto (che dovrebbero essere i “motociclisti”) sono passati per molte evoluzioni, e sono certamente cambiati.

Ma è solo uno dei tanti cambiamenti che ci sono stati, nel settore moto e in tutto quello che ci circonda. E tanti cambiamenti ci sono stati anche nelle moto.

La prima motocicletta venne costruita nel 1869, con un motore a vapore. Successivamente, nel 1877, venne costruito il primo motore a scoppio a benzina, nel 1885 due inventori tedeschi, Gottlieb Daimler e Wilhelm Maybach, realizzarono il primo prototipo di motocicletta con motore a combustione interna e nel 1886 Carl Benz costruì il primo autoveicolo con motore endotermico.

Da allora ci sono state moltissime evoluzioni, sia nelle auto che nelle moto, solo che sotto il punto di vista della comodità e della affidabilità le auto si sono evolute con una velocità diversa.

Alla fine degli anni 60 c’erano auto con finiture di lusso, affidabili anche per viaggi lunghi, mentre per andare in moto era ancora importante portarsi dietro pinza e fil di ferro per potere risolvere di persona piccoli problemi che avrebbero potuto fermarci per strada. Per usare un’auto non serviva la stessa competenza meccanica necessaria per guidare una moto.

Fu in quel periodo che arrivarono sul mercato le prime moto giapponesi, contrastando un mercato fatto unicamente da marchi europei. Rispetto alle moto europee avevano motori più potenti e una buona affidabilità ma una ciclistica incerta.

A questo seguì una accelerazione della evoluzione delle moto. Negli anni 70 e 80 prima gli europei copiarono le strutture dei motori, poi i Giapponesi copiarono le strutture dei telai. Le carenature non furono più una esclusiva per le moto da pista, e arrivarono le prime moto carenate per uso turistico, e le prime moto di grossa cilindrata per il turismo. Le BMW serie RT, le Honda Gold Wing e le Moto Guzzi SP.

Arrivarono gli anni 90 e il nuovo millennio, le moto aumentavano di prestazioni, di affidabilità e di comodità… e di complessità. Oramai le moto che si potevano riparare con una pinza e del filo di ferro erano sempre di meno. La maggiore affidabilità rese meno importante, per essere motociclista, avere una specifica esperienza nel motore e nella meccanica. Altri miglioramenti alla meccanica e alla ciclistica delle moto le hanno rese anche sempre più facili da guidare, anche se molto potenti.

Tutte queste evoluzioni delle moto hanno però fatto cambiare i motociclisti. Se diminuire il livello di esperienza (meccanica e di guida) necessaria per usare una moto ha aumentato il numero dei possibili acquirenti di una moto, ha anche diminuito l’impegno e la dedizione necessaria per potere vivere la passione per la moto. Ha reso quindi più facile diventare motociclista, ma metterci meno impegno per diventarlo, rende rinunciare alla moto qualcosa di meno oneroso emotivamente.

Ritengo sia diffuso il fatto che se una cosa la puoi ottenere senza fatica, la si potrà abbandonare con altrettanta facilità.

E’ la legge della superficialità. La legge che si è imposta in questi ultimi anni.

Questa superficialità non è solo del mondo della motocicletta, ma è trasversale per ogni situazione di vita. Conta sempre di più l’apparenza della sostanza, e lo si vede anche su come si è evoluta la comunicazione su Internet e su come nascono e si evolvono le comunità virtuali che la popolano.

I forum, le mailing list e i blog di quindici anni fa sono stati sostituiti dai social network come Facebook e Twitter. Se prima era necessaria una certa competenza per potere usare i vari sistemi, ora partecipare è facilissimo. Peccato che insieme alle competenze richieste per partecipare è calata anche la qualità complessiva dei contenuti. Prima le community erano di qualche centinaio di iscritti, ma in tanti partecipavano in modo attivo. Ora è facile creare gruppi di migliaia di persone, basta un “like” per iscriversi, ma molto spesso su quel gruppo dopo quel “like” non si fa più nulla.

In ogni ambito (inclusa la politica) si da importanza soprattutto alla apparenza, e questo avviene anche per le moto.

I primi ad avere ogni anno nuovi allestimenti o nuove versioni di un determinato modello da presentare sono stati i Giapponesi. In capo a pochi anni tutti i produttori hanno seguito questo esempio. Anche la BMW, che prima era nota per tenere a catalogo un modello di moto per anni, cambiandone solo il colore, ora aggiorna buona parte della sua produzione praticamente ogni anno.

Evidentemente è quello che chiede il mercato.

Da alcune statistiche risulta che l’età media del motociclista si sta alzando, e che il numero complessivo dei motociclisti sta diminuendo. Basta dare una occhiata ad una sosta ad un qualsiasi passo alpino o appenninico, per accorgersi che di “under 30” ce ne sono davvero pochi.

Segno che è una passione che non riesce ad attirare i giovani come un tempo. Oramai la sensazione è che per le nuove generazioni ci sono interessi diversi, più facili e meno impegnativi (poiché comunque andare in moto con sole o pioggia richiede un impegno maggiore dell’andare in auto). Per quelli che poi acquistano una moto, sembra che conti di più fare vedere che la propria moto è l’ultimo modello, completo di ogni accessorio, che appassionarsi all’uso della moto, percorrendo chilometri per vivere esperienze uniche in sella alla propria moto.

Del resto basta guardare le ultime proposte di alcuni marchi motociclistici per notare che si sta dando una enorme attenzione alla disponibilità di accessori “multimediali” che rendono le moto sempre più simili alle auto, e per di più rischiano di togliere a chi guida l’indispensabile attenzione che deve essere data alla strada.

Non parliamo poi della famosa “solidarietà” che dovrebbe contraddistinguere i motociclisti. Oramai è solo un argomento che si focalizza sul fatto che i possessori di certe moto salutano di più o di meno di altri, ma la solidarietà è tutta un’altra cosa. E’ qualcosa di impegnativo, che si dovrebbe avere ogni giorno verso chi condivide la nostra passione. Anche (e soprattutto) verso chi vive la moto in modo diverso dal vostro. Ma tutto questo è totalmente sconosciuto, e ho visto chi fa fatica ad essere solidale con chi ha una moto di una marca diversa dalla sua.

Alla fine direi che dire “i motociclisti sono cambiati” è una constatazione quasi banale, ma è fin troppo gentile. Personalmente ritengo che i “motociclisti” non sono cambiati. Sono proprio in via di estinzione. Per contro stanno aumentando i “possessori di moto”, che dopo un breve periodo in sella preferiranno vendere la moto (che diventano abituale, non darà le facili sensazioni di quando era una novità) per dedicarsi ad altro che possa dare nuove facili emozioni.

Per questo motivo trovo fuori luogo lo slogan di EICMA 2017: “Per chi ha la moto dentro”.  Oramai la moto è qualcosa che sono sempre in meno ad avere “dentro”, mentre per tanti è proprio da tenere “fuori”, da fare vedere.

Ma niente di più.

Voi che ne dite?

Tutto sempre troppo di fretta

Sono convinto che uno dei principali problemi odierni sia la fretta.

Si pretende che tutto sia breve, sia veloce. Si ha un esempio dal successo che hanno social come Instagram, basato sulle immagini. Si guarda una foto, se va bene ci sono due righe di testo, e poi si passa oltre. Senza doverci dedicare tempo.

Anche Facebook è simile. I post dove c’è solo testo scritto, spesso hanno meno attenzione di quelli dove c’è anche una foto. Se poi il testo è di oltre una decina di righe, saranno in pochi a cliccare su “…Altro…” per leggere il testo che manca.

Non parliamo di Twitter, tanto caro ai politici. Messaggi di 150 caratteri, come se fossero epitaffi. Il fatto che venga usato così frequentemente da alcuni personaggi politici dovrebbe fare riflettere sul fatto che forse lo usano perché non riuscirebbero a formulare pensieri più lunghi.

Resta il fatto che c’è la richiesta di avere cose da leggere in fretta. Se uno scrive più di quello che ci si aspetta, allora diventa prolisso.

Ma a nessuno viene in mente che certi argomenti non possono essere trattati correttamente in poche righe?

Nessuno considera che la fretta è una forma di superficialità?

Se dovessimo trattare ogni argomento in poche righe, alla fine si parla di tante cose diverse, ma per non dire nulla di interessante. Si avrebbe la quantità, ma non la qualità. Al massimo qualche affermazione lapidaria, ma senza alcun modo di argomentarla. Tanto chi leggerebbe le argomentazioni?

Volere sintetizzare tutto in poche righe si finisce con l’essere approssimativi, è un modo di fare disinformazione. Pretendere la sintesi è una forma di arroganza, che dimostra solo che non si ha interesse in quello che viene detto. Spiegamelo in dieci parole, altrimenti non ho tempo”.

Questo modo di fare va bene giusto per parlare del risultato della ultima partita, o di quanto era corto il vestito della presentatrice di una certa trasmissione. Questo modo di fare va bene per parlare del nulla.

Ed è un modo di fare che non mi piace.

Quindi è molto probabile che i prossimi post, saranno decisamente più lunghi, anche perché se dovessi parlare del nulla, farei prima a non dire proprio niente.

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